Malgrado giungano alcuni dettagli continuano a sembrare poco chiari i contenuti dell’accordo tra Usa e Ue sui dazi. La sensazione è che sembra aver subito una grande prevaricazione perpetuata a fronte di un inaccettabile cedimento della Commissione.
Le imprese italiane ed europee, dopo la crisi virale del 2020, il fallimento del Green New Deal, il costo energetico, il piano ReArm Europe, devono ora affrontare l’imposizione di un regime tariffario punitivo che penalizza, in estrema sintesi, la competitività del sistema produttivo proiettato verso l’export.
Inizia ora una lunga fase di riposizionamento dei rapporti tra Washington e Bruxelles e non di meno tra Bruxelles ed i Paesi del blocco. Non è da escludere che nei prossimi mesi ogni membro dell’Eurozona cercherà di creare uno spazio di autonomia per salvare le proprie esportazioni. Più passano i giorni, più l’accordo appare un piano di lavoro in via di definizione con alcune certezze. La Francia sta già lavorando per escludere dal nuovo regime tariffario alcune sue produzioni. Per i produttori italiani sarà difficile competere con altri player mondiali specie per il comparto dei macchinari e dell’automotive.
Secondo i dati che emergono dall’Indagine Promos Italia oltre la metà degli imprenditori teme difficoltà per l’export dopo l’accordo sui dazi USA al 15%. Secondo detto sondaggio il 50,5% delle aziende ritiene di subire un danno significativo, un altro 20,6% ritiene che l’impatto possa essere limitato. Le 150 aziende interpellate da Promos, agenzia delle Camere di commercio che si occupa dell’internazionalizzazione delle imprese, non vedono di buon occhio l’operato della UE: per il 40,2%, con l’intesa Bruxelles non dà particolare dimostrazione di supporto alle aziende, mentre il 37,1% ritiene che l’accordo non rafforzi per niente la fiducia nelle istituzioni europee.
Imprenditori e manager dovranno reagire. Nell’immediato lavorando ulteriormente sull’efficienza di scala, nel medio termine differenziando la geografia dei mercati. Il Ministero degli Affari esteri sul commercio internazionale ha pubblicato a marzo un piano di diversificazione dei mercati di sbocco. L’obiettivo è arrivare a 700 miliardi di export.
Il piano ha messo a fuoco aree di crescita a partire dall’ASEAN, il Sud-Est asiatico, tra cui spicca l’India, che con 800 milioni di consumatori rappresenta un mercato con grandi opportunità; il Mercosur, soprattutto Brasile e Argentina, con 300 milioni di consumatori, area con la quale il 6 dicembre la UE ha firmato l’intesa preliminare per un accordo che dovrebbe essere ratificato nei primi mesi del 2026. Poi c’è la parte MENA (Middle East and North Africa), in particolare Arabia Saudita ed Emirati Arabi. Rientrano nel piano di sviluppo i rapporti commerciali anche con altri mercati come il Giappone. Auspicando la fine della guerra in Ucraina vi è la Russia oltre alla Cina. Attualmente il made in Italy esporta 630 miliardi, di cui 65 negli Stati Uniti, il 10%.
Se i piani strategici implicano orizzonti temporali di lungo termine, a breve si sta profilando un altro fattore che potrebbe mitigare l’impatto dei dazi. Con la definizione dell’accordo, l’euro ha aperto una fase di possibile inversione di tendenza. Volendo mettere in correlazione il percorso delineato a partire da inizio anno dall’Amministrazione americana per la definizione del compromesso e la parallela svalutazione del dollaro, verrebbe da pensare che il presidente Trump abbia negoziato l’accordo favorendo l’apprezzamento della divisa americana. Un modo creativo per compensare l’imposizione del 15% con un recupero del dollaro che nei prossimi mesi potrebbe recuperare il rapporto di cambio ritornando a quotare sotto 1,10 contro euro.
Il differenziale sui tassi, le migliori condizioni di crescita degli Stati Uniti, ma soprattutto la necessità per l’America di supportare la centralità irrinunciabile dal punto di vista politico del dollaro, costituiscono validi fattori per ritenere il processo credibile. Si tratta di un’ipotesi creativa, tuttavia la caduta dell’euro pari al 4% nelle prime 36 ore successive al deal, appare quantomeno sintomatica.
L’annuncio di domenica sera, che avrebbe sventato il rischio di una guerra commerciale tra Stati Uniti ed Europa, più che la fine di un processo segna, quindi, l’inizio di un nuovo ciclo tra le relazioni dei due soggetti. Ad oggi l’Unione appare avere accettato un ruolo subalterno, indebolendo così, in modo significativo, le ambizioni geopolitiche nella leadership globale.
Spetta alla politica, ma anche a imprese e dirigenti, invertire la rotta. Federmanager, con l’immediata reazione del suo vertice nazionale, il presidente Valter Quercioli, sul tema c’è, Confindustria, com’è noto, anche, e la politica?
Daniele Damele
Presidente Federmanager FVG
e Segretario CIDA FVG