La mancata rivalutazione delle pensioni ha già portato
a perdite di decine di migliaia di euro per ogni pensionato
Parafrasando il titolo di un noto film americano del 1998, ambientato nella Seconda Guerra Mondiale, “Salvate il soldato Ryan” si desidera destare l’attenzione dei parlamentari del Friuli Venezia Giulia in merito al depauperamento avvenuto nel corso degli anni, a partire dal 1986, del reddito pensionistico del ceto medio che, in estrema sintesi, ha bruciato in 30 anni il reddito pensionistico di un intero anno. È, quindi, necessario che questo Parlamento, come promesso generalmente da maggioranza e opposizioni, introduca le opportune iniziative per salvaguardare non solo il residuo potere di acquisto, ma anche per evitare che si riduca ulteriormente qualora vengano mantenute le attuali aliquote di riduzione della perequazione.
Nello stesso tempo è necessario che si proceda ad una revisione delle aliquote IRPEF in modo che possano trarne beneficio anche coloro che hanno redditi superiori ai 60.000 € lordi annui, considerato che nel ceto medio si riconoscono tutti i percettori di reddito fino a 120.000 € lordi annui. La riduzione della rivalutazione della perequazione, è una storia di lunga data che inizia nel 1984 con l’applicazione della legge n730/1983. Tale norma introduce per la prima volta una differenziazione in base all’importo della pensione lorda, prevedendo rivalutazioni decrescenti in relazione agli scaglioni. Rivalutazione piena fino a 2 volte l’importo minimo INPS, ridotta al 90% per l’importo compreso tra 2 e 3 volte il minimo e pari al 75% per gli importi superiori.
Le leggi che si sono succedute negli anni 1986, 1994, 1996 e 1997, hanno mantenuto, seppur in forme diverse, gli scaglioni in base al valore della pensione. La situazione è peggiorata ulteriormente con i Governi che dal 1997 al 2025, in soli 28 anni, hanno variato il meccanismo della rivalutazione della pensione, cambiandolo in modo discrezionale per ben 15 volte. Solo per citare gli ultimi anni, a partire dal 2020 si è passati da una rivalutazione del 100% per pensioni fino 4 a volte il minimo, a percentuali inferiori e altalenanti negli anni successivi per dei redditi superiori, con valori di rivalutazione del 22 per cento nel 2024 e del 75% nel 2025 per le pensioni pari a 10 volte il minimo. Addirittura nel 2008 e nel 2012 la rivalutazione della perequazione fu annullata per redditi da pensione rispettivamente di 8 e 6 volte il minimo.
Ulteriori “balzelli” che il ceto medio ha subito sui propri redditi pensionistici, sono rappresentati dai contributi di solidarietà per coloro i quali godevano di un reddito superiore a “n” volte il minimo. Anche questi contributi variarono nel tempo con molta fantasia. Solo per citare l’ultimo in ordine di tempo, si sottolinea che dal 2019 al 2023 il contributo di solidarietà ha riguardato, con valori variabili dal 15 al 40%, le aliquote eccedenti i 100.000 € lordi annui. Su questa legge è intervenuta la Corte Costituzionale per sancire l’illegittimità di prelievo quinquennale decidendo un orizzonte triennale, uniformandolo al bilancio di previsione e, quindi, bloccando il contributo al 2021.
In pratica, per effetto delle inique leggi citate, il 21,9% dei pensionati (circa 3,5 milioni) che percepisce un reddito annuo lordo superiore a 4 volte il trattamento minimo, ha subito una rivalutazione ridotta della perequazione. Sono gli stessi pensionati che pagano il 62% dell’intero IRPEF sulle pensioni. Per comprendere l’entità della perdita del potere di acquisto di questi pensionati che costituiscono il ceto medio della popolazione italiana, è opportuno riportare un esempio concreto che riguarda il periodo 2012 – 2025 ricavato dalle analisi prodotte dal Centro Studi e Ricerche dell’Istituto Itinerari Previdenziali, diretto da Alberto Brambilla.
Il trattamento pensionistico minimo lordo è passato da 468,35 €/mese del 2012 a 603,40 €/mese del 2025; un reddito pensionistico tra le 5 e 6 volte il trattamento minimo pari a circa 2.650 € lordi del 2012 e a circa 3.400 € lordi nel 2025, a causa della riduzione della perequazione, rispetto all’aliquota massima del 100%, nel lasso di tempo considerato, ha perso ben 37.000 €, pari a circa il 16% di perdita del potere di acquisto. Perdite maggiori valgono per le fasce di reddito da 11 a 22 volte il reddito minimo dove si raggiungono valori pari a circa 178.000 € per una perdita di potere di acquisto del 21%.
Considerata anche l’attuale aspettativa di vita, molto interessante risulta lo studio relativo a ciò che ci riserverà il futuro in merito alla perdita annua in valore assoluto dal 2026 al 2035 qualora venissero mantenuti gli attuali scaglioni del 100, 90 e 75% di rivalutazione della perequazione, ipotizzando un’inflazione annua ferma al 2%. La perdita annua andrebbe dai 755 € per i redditi 4/5 volte il minimo, a 11.000 € per redditi 19/20 volte il minimo, per un valore complessivo, in quest’ultimo caso, di 110.000 € nei 10 anni considerati. Da queste analisi emerge che, rispetto alle persone in età attiva, i pensionati hanno meno possibilità di difendersi dall’inflazione in quanto il mantenimento del loro potere di acquisto è affidato unicamente ai meccanismi di indicizzazione che, contrariamente a quanto avvenuto dal 1984 in poi, non sono stati stabili nel tempo e per nulla equi.
Queste leggi sono state definite inique perché la svalutazione delle pensioni, con tagli prorogati in modo variabile negli anni, colpisce maggiormente le pensioni medio – alte, danneggiando quelle persone e, di conseguenza le loro famiglie, che hanno sempre contribuito ad alimentare le casse dello Stato versando più tasse e più contributi. Il rischio, piuttosto concreto, perché di fatto già in atto, è anche quello di minare la fiducia nel patto generazionale e quindi dare ancora maggiore vigore a quel fenomeno di uscita dal nostro Paese di molti giovani, soprattutto laureati, con l’inevitabile conseguenza di impoverimento generale dei bilanci previdenziali che rischiano seriamente di non reggere. Anche l’OCSE, nel rapporto del 2023, esaminando i sistemi pensionistici dei Paesi aderenti, ha rilevato in maniera critica che solo Italia, Austria, Lituania e Portogallo non garantiscono lo stesso incremento percentuale a tutte le pensioni, ma lo differenziano in modo decrescente in funzione dell’importo della pensione.
Tra i 4 Paesi citati solo Lituania e Portogallo hanno regole ben definite e fissate, mentre Italia e Austria cambiano le regole con i Governi che si succedono concludendo che le regole di Italia e Austria in materia pensionistica sono arbitrarie. È pertanto indispensabile, accanto al rispetto di una equa e non discriminatoria rivalutazione della perequazione pensionistica, vengano messe in atto ulteriori iniziative, più volte richieste, da CIDA e Federmanager nazionali. Esse riguardano: la separazione tra Previdenza ed Assistenza, che consentirebbe una certa stabilità dei bilanci INPS, un sistema fiscale equo che mantenga la curva di continuità progressiva del prelievo fiscale articolata per scaglioni, ma le riduzioni all’interno di ognuno di essi devono essere applicate a tutti i contribuenti, l’adozione di una anagrafe nazionale dell’assistenza per un sistema che vada a sostenere solamente chi ne ha veramente necessità eliminando alla radice ogni abuso.
Daniele Damele Presidente Federmanager FVG
Francesco De Benedetto Consigliere Federmanager FVG e
Responsabile Gruppo Senior Sede Federmanager di Udine