Intervento di Ignazio Visco Governatore della Banca d’Italia
Desidero innanzitutto ringraziare Alessandro Petretto per il suo gentile invito, la Fondazione CESIFIN Alberto Predieri e l’Istituto Universitario Europeo per l’organizzazione di questo evento e, naturalmente, i partecipanti alla tavola rotonda per le loro riflessioni sulle frontiere della politica monetaria.
Nel convegno si è discusso delle nuove competenze e dei ruoli assunti dalle banche centrali con riferimento alla stabilità finanziaria, alla lotta al cambiamento climatico e alla possibile adozione di una moneta digitale. Si tratta di tre aree importanti che il Consiglio direttivo della Banca centrale europea (BCE) ha esaminato con grande attenzione negli ultimi anni, anche in occasione della revisione della strategia di politica monetaria completata nel luglio 2021.
Le decisioni più note adottate a seguito della revisione riguardano la conferma che l’indice armonizzato dei prezzi al consumo rimane la misura d’inflazione più appropriata (pur avendo raccomandato la futura inclusione nel paniere dei costi relativi alla componente di consumo delle abitazioni occupate dai proprietari) e, soprattutto, la determinazione a perseguire un obiettivo d’inflazione “simmetrico”, pari al 2 per cento nel medio termine. L’attenzione al medio termine quale orizzonte temporale rilevante per il raggiungimento di tale obiettivo ci permette di prendere in considerazione tutti i fattori importanti per il perseguimento della stabilità dei prezzi, compresi i rischi di stabilità finanziaria e quelli legati al cambiamento climatico.
Come ho avuto modo di osservare in altre occasioni, la stabilità finanziaria è un prerequisito per la stabilità dei prezzi, un prerequisito che ha peraltro trovato conferma nella crisi finanziaria globale, nella crisi dei debiti sovrani in Europa e, più recentemente, in quella originata dalla pandemia di Covid‑19. Sarebbe infatti difficile immaginare crisi finanziarie che pur esercitando effetti negativi in tutti i segmenti del mercato non abbiano ripercussioni anche sul meccanismo di trasmissione monetaria e sulla stabilità dei prezzi. Per questo motivo, nell’ultimo decennio molte banche centrali hanno adottato politiche monetarie “non convenzionali” al fine di preservare un’adeguata trasmissione degli impulsi monetari nonché per contenere i rischi di deflazione emersi successivamente alle crisi finanziarie.
Le banche centrali hanno, in particolare, contrastato tali rischi abbassando i tassi ufficiali a zero o, addirittura, su livelli negativi (impensabili solo pochi anni fa) e verosimilmente vicini al loro limite inferiore effettivo (effective lower bound). Hanno, inoltre, fatto un ampio ricorso, con il cosiddetto “quantitative easing”, agli acquisti di titoli pubblici; secondo alcuni, questo potrebbe persino averne messo in pericolo l’indipendenza, a causa dei rischi di “dominanza fiscale” (quando la banca centrale non può o non vuole agire per mantenere la stabilità dei prezzi per non compromettere la sostenibilità del debito pubblico). Tali misure hanno tuttavia avuto un indubbio successo, contrastando con incisività il rischio di favorire fasi di prolungata recessione e riuscendo ad allentare con decisione le pressioni deflattive.
Il Consiglio direttivo della BCE ha inoltre riconosciuto che il cambiamento climatico ha profonde implicazioni per la stabilità dei prezzi. Mentre la stabilità finanziaria ha da sempre rivestito un ruolo di primo piano nelle preoccupazioni delle banche centrali ‒ al punto che, storicamente, è stata spesso la ragione principale della loro istituzione ‒ le considerazioni sul cambiamento climatico sono relativamente recenti. La BCE si è quindi impegnata in un ambizioso piano d’azione volto da un lato ad ampliare le capacità analitiche necessarie per valutare le implicazioni del cambiamento climatico per la trasmissione monetaria e la stabilità dei prezzi e dall’altro a tenere conto dei requisiti di sostenibilità ambientale nelle operazioni di politica monetaria, in particolare con riferimento alle attività idonee a essere acquistate o accettate in garanzia dall’Eurosistema.
Per dare seguito a questo piano, la scorsa settimana la BCE ha annunciato che, a partire da domani, adotterà un “punteggio climatico” per orientare i propri acquisti di obbligazioni societarie a favore degli emittenti con migliori performance climatiche. Tutte le misure saranno in ogni caso disegnate in modo tale da garantire che la dimensione del nostro portafoglio di obbligazioni societarie e l’ammontare disponibile di titoli costituibili a garanzia rimangano coerenti con gli obiettivi di politica monetaria della BCE e permettano al suo quadro di riferimento di funzionare sempre senza problemi.
Una sfida più recente riguarda l’introduzione di una moneta digitale di banca centrale. Oggi una quota crescente dei pagamenti viene effettuata elettronicamente. Si discute molto di questi tempi dello sviluppo di strumenti che si avvalgono dei progressi di natura tecnologica, in particolare con il ricorso alle tecnologie dei registri distribuiti. A parte numerose questioni, di cui abbiamo più volte parlato, connesse con rischi di varia natura che riguardano le criptoattività, anche quelle emesse a fronte di attività reali e finanziarie (fully-backed stablecoins), essendo passività di enti privati, non sarebbero esenti dal rischio di insolvenza. In effetti, l’unico strumento privo di tale rischio è il contante emesso dalla banca centrale, moneta a corso legale.
Obiettivo dell’introduzione di un euro digitale è di consentire a famiglie e imprese di effettuare pagamenti utilizzando direttamente la moneta di banca centrale, in modo sicuro, semplice ed economico, al pari del contante, e senza rischi per l’attività di intermediazione finanziaria. Esso costituirebbe quindi un’ancora per la fiducia del pubblico nella moneta e sarebbe complementare al contante, agli strumenti di pagamento elettronici esistenti, nonché allo sviluppo di strumenti digitali privati affidabili. Il progetto è attualmente in fase di investigazione con approfondimenti tecnici e operativi, una fase che terminerà tra un anno, dopo di che il Consiglio direttivo della BCE deciderà se e come passare alla fase di realizzazione. In ogni caso, nel favorire l’innovazione e accompagnare la trasformazione digitale dell’economia, con l’introduzione di una moneta digitale di banca centrale andrà salvaguardata la protezione dei dati personali, garantita la sicurezza, promossa la facilità di utilizzo. I lavori coordinati dalla task force di alto livello nella quale sono congiuntamente impegnate la BCE e le banche centrali nazionali dell’area euro, procedono in modo molto soddisfacente, con risultati senz’altro promettenti.
I mutamenti che ho menzionato riflettono il modo in cui la BCE si sta adattando a un contesto economico in continua evoluzione. Il cambiamento più importante che abbiamo osservato negli ultimi mesi consiste, tuttavia, nel forte aumento dell’inflazione che si sta verificando a livello globale e in particolare negli Stati Uniti e in Europa. Si tratta di un cambiamento che ci riporta a quella che rimane oggi la sfida principale per tutte le banche centrali, preservare la stabilità dei prezzi. Ed è su questa sfida che mi concentrerò oggi (per maggiori dettagli rinvio alla nota “Monetary Policy and Inflation: Recent Developments”, che accompagna questo intervento).
In tutti i paesi, l’inflazione ha trovato alimento negli eccezionali aumenti dei prezzi delle materie prime energetiche. Le modalità di questi aumenti e il loro peso relativo rispetto ad altri fattori, tuttavia, differiscono ampiamente tra le diverse economie, in particolare se si confrontano gli Stati Uniti e l’area dell’euro.
La differenza più importante tra le due economie probabilmente riguarda la risposta data dalla politica di bilancio alla crisi pandemica nel 2020‑21. Sebbene molti paesi abbiano introdotto misure su vasta scala per rafforzare i propri sistemi sanitari e sostenere le famiglie e le imprese, gli interventi attuati dall’amministrazione statunitense sono state eccezionalmente forti. In questi due anni il rapporto tra debito e PIL è cresciuto di quasi 25 punti percentuali, superando il 130 per cento, a fronte di un aumento medio di meno di 15 punti nei paesi dell’area dell’euro, a circa il 95 per cento del PIL. Il sostegno offerto negli Stati Uniti ha avuto un effetto notevole sul reddito disponibile delle famiglie, che nel 2020 ha registrato il tasso di crescita più alto da quasi quarant’anni, con un aumento del 6,2 per cento in termini reali a fronte di un calo del PIL del 3,4 per cento. Nell’area dell’euro, invece, il reddito disponibile delle famiglie è diminuito, sia pure di poco (0,6 per cento) e comunque in misura inferiore rispetto al calo del PIL (6,4 per cento). Gli effetti inflazionistici del conseguente surriscaldamento dell’economia americana sono stati amplificati dalla ripresa ancora solo parziale dell’offerta globale dovuta alle ricorrenti ondate di pandemia, con colli di bottiglia nelle filiere internazionali di beni intermedi ed effetti negativi sulla produzione in molti paesi.
Una seconda differenza, correlata alla prima, riguarda le condizioni del mercato del lavoro. Negli Stati Uniti la disoccupazione era pari lo scorso agosto ad appena il 3,7 per cento, quasi 3 punti percentuali in meno rispetto all’area dell’euro. Il numero di posti di lavoro vacanti in rapporto alla somma tra occupati e posti di lavoro vacanti (vacancy rate) ha raggiunto il 7 per cento negli Stati Uniti (a luglio), il doppio del livello registrato nell’area dell’euro (nel secondo trimestre). Negli Stati Uniti vi sono quindi, per ogni disoccupato, due posti di lavoro vacanti, mentre nell’area dell’euro due disoccupati competono per meno di un posto di lavoro vacante. Di conseguenza, tutti i principali indicatori suggeriscono una crescita salariale vicina o superiore al 5 per cento (su base annua) negli Stati Uniti, un livello difficile da riconciliare con un obiettivo d’inflazione del 2 per cento. Nell’area dell’euro, invece, le retribuzioni contrattuali hanno finora continuato a crescere a ritmi intorno al 2 per cento.
Negli Stati Uniti, il maggiore impatto di questi fattori di domanda si accompagna a un minore contributo dei fattori di offerta. Tanto in quella economia quanto nell’area dell’euro i prezzi del petrolio sono più alti del 20 per cento rispetto a un anno fa; nello stesso periodo, i prezzi del gas sono però aumentati di un sorprendente 150 per cento nell’area dell’euro fino a circa 200 euro per megawattora, un livello attorno a cui registrano forti oscillazioni da oltre tre mesi, contro un incremento del 50 per cento negli Stati Uniti, a meno di 30 dollari per megawattora. Ciò è particolarmente preoccupante perché il gas svolge un ruolo fondamentale non solo per il riscaldamento e altri usi domestici, ma anche per la produzione di energia elettrica.
Nonostante queste differenze, l’inflazione complessiva ha registrato dinamiche simili nelle due economie, che sono progressivamente aumentate oltre l’8 per cento sia negli Stati Uniti sia nell’area dell’euro. Diverso è stato invece l’andamento dell’inflazione al netto delle componenti più volatili (che esclude i prodotti alimentari ed energetici); negli Stati Uniti questa ha superato il 6 per cento all’inizio del 2022 ed era ancora al 6,3 per cento ad agosto, mentre nell’area dell’euro risultava solo leggermente superiore al 2 per cento all’inizio dell’anno e, ad agosto, il suo livello era ancora 2 punti percentuali inferiore a quello degli Stati Uniti.
Le differenze tra Stati Uniti e area dell’euro nel peso relativo dei fattori di domanda e di offerta e nella dinamica dei prezzi al netto delle componenti più volatili spiegano perché, a fronte di un’inflazione complessiva che ha raggiunto valori simili, la normalizzazione della politica monetaria avviene con velocità e tempi diversi. Queste differenze suggeriscono anche che ipotizzare che la BCE segua ciecamente la Riserva federale nei prossimi mesi potrebbe essere un grave errore.
Nell’enfatizzare il presunto errore costituito dal ritardo con cui la BCE avrebbe iniziato a modificare la stance di politica monetaria, molti commentatori hanno invece puntato il dito sugli errori di previsione. Se alla metà dello scorso anno l’inflazione complessiva nell’area dell’euro era ancora al di sotto del 2 per cento e intorno all’1 al netto delle componenti più volatili, dalla fine del 2021 essa ha infatti sorpreso al rialzo. In particolare, gli errori di previsione sulla crescita dei prezzi al consumo compiuti dallo staff della BCE e dell’Eurosistema durante i primi due trimestri del 2022 sono stati molto maggiori di quelli osservati in passato. Vi è chi ha quindi sostenuto che questi errori potrebbero aver messo in discussione la credibilità della BCE. Errori altrettanto grandi sono stati commessi, tuttavia, anche da altre istituzioni internazionali e previsori privati.
L’entità degli errori di previsione potrebbe mettere in dubbio l’affidabilità dei modelli utilizzati per le proiezioni, che potrebbero aver bisogno di valutazioni meno formali e più basate sul giudizio (anche se qualsiasi modello di previsione include sempre fattori di giudizio). Non si può non ricordare che i modelli econometrici sono approssimazioni più o meno semplificate della realtà; non possono tenere meccanicamente conto di particolari non linearità nei mercati finanziari o delle materie prime o di cambiamenti di regime nei comportamenti conseguenti a shock di natura sanitaria o geopolitica. Vanno quindi usati nella definizione delle misure di politica economica con attenzione, integrandoli con informazioni esterne e valutazioni di natura qualitativa, ma non se ne può fare a meno per un’organizzazione disciplinata delle valutazioni alla base di tali misure. Le nostre analisi indicano, tuttavia, che gli effetti dei prezzi dell’energia – che sono le variabili esogene più importanti, le cui variazioni sono dedotte dalle quotazioni dei contratti futures – spiegano, direttamente e indirettamente (cioè attraverso i loro effetti sui costi di produzione), il 65 per cento degli errori complessivi commessi nella previsione dell’inflazione. Questa quota sale all’80 per cento se si tiene conto anche degli effetti dei prezzi dei generi alimentari, l’altra componente volatile dell’indice armonizzato dei prezzi al consumo (particolarmente influenzata dal conflitto in Ucraina).
Questi risultati suggeriscono che non pare esservi stato un eccezionale mutamento strutturale nel funzionamento dell’economia nel corso dell’ultimo anno e che i modelli utilizzati per le proiezioni sembrano rimanere nel complesso validi. Richiamano la nostra attenzione, tuttavia, sulla qualità delle previsioni utilizzate come input. Un problema cruciale è stato costituito dalla generale sottovalutazione delle tensioni geopolitiche, con il forte calo delle forniture di gas dalla Russia osservato dall’inizio dello scorso anno, attribuito prima (e probabilmente erroneamente) all’inverno particolarmente freddo in quel paese e, successivamente, alle pressioni del governo russo connesse con il gasdotto Nord Stream 2. Ma il fattore più importante è stato, ovviamente, l’invasione russa dell’Ucraina: mentre sino alla fine dello scorso anno le quotazioni dei futures avevano continuato a scontare una progressiva discesa dei prezzi del petrolio e del gas, il conflitto ha portato i prezzi – non solo quelli correnti, ma anche quelli attesi – su livelli molto elevati.
Le quotazioni del gas forniscono un esempio significativo. Alla fine di settembre 2021, quando il prezzo spot del gas era salito a 100 euro per megawattora, le quotazioni dei futures prevedevano un calo a meno di 50 euro entro giugno 2022. Invece di diminuire di oltre il 50 per cento, tuttavia, i prezzi del gas sono aumentati di quasi il 100 per cento, raggiungendo, come ho già ricordato, un livello di circa 200 euro. Più in generale, le ripercussioni dell’aumento dei prezzi dell’energia sull’inflazione, considerate temporanee prima dello scoppio della guerra, a causa sia delle attese desunte dai mercati dei futures sia di effetti base negativi (essendo l’inflazione misurata da variazioni a distanza di dodici mesi), sono invece divenute persistenti. Queste considerazioni sono emblematiche delle difficoltà nel prevedere le variabili macroeconomiche, quando queste sono guidate da fenomeni non economici, come l’aumento delle tensioni geopolitiche; occorrerà tenerne conto quando si manifesterà la tendenza a commettere errori di previsione di segno opposto all’attenuarsi, auspicabilmente in tempi brevi ma purtroppo oggi assai incerti, di queste tensioni.
Alla luce delle informazioni disponibili, le affermazioni secondo cui il Consiglio direttivo della BCE avrebbe erroneamente ritardato il riequilibrio della politica monetaria appaiono ingiustificate. La normalizzazione dell’orientamento monetario è in atto dallo scorso dicembre quando, sullo sfondo di un miglioramento delle prospettive economiche e dell’aumento delle aspettative d’inflazione a medio termine verso l’obiettivo di stabilità dei prezzi, il Consiglio direttivo ha annunciato l’avvio della riduzione degli acquisti netti di titoli nell’ambito dei suoi programmi di “espansione quantitativa”. Nella prima parte di quest’anno, il processo ha accelerato, evitando gli effetti potenzialmente pericolosi di un calo troppo forte (cliff effects), e gli acquisti sono stati conclusi il 1° luglio. Poche settimane dopo, abbiamo iniziato ad aumentare i tassi ufficiali in misura significativa (50 punti base a luglio e 75 a settembre) con l’obiettivo di anticipare l’uscita dai loro livelli, a lungo negativi ed eccezionalmente accomodanti.
Un così radicale cambiamento nell’orientamento della politica monetaria rispecchia il corrispondente brusco mutamento delle prospettive economiche. In primo luogo, sono stati superati i timori legati alla pandemia, che aveva portato l’economia in recessione, non solo in Europa, e che aveva ridotto l’inflazione temporaneamente al di sotto dello zero. I rischi di deflazione sono così svaniti. In secondo luogo, l’area dell’euro è stata investita da uno shock energetico di straordinaria portata, di gran lunga maggiore degli shock petroliferi degli anni Settanta del secolo scorso. Il forte aumento dell’inflazione che ne è conseguito non può essere ignorato dalla banca centrale: occorre contrastare con decisione il rischio che possa causare un aumento delle aspettative d’inflazione e portare a sua volta a una vana e dannosa spirale tra salari e prezzi.
È quindi fondamentale, in questa fase, monitorare attentamente le aspettative d’inflazione e la dinamica dei salari e dei profitti. Indicatori finanziari sull’inflazione futura, quali quelli basati sui tassi di mercato di contratti legati all’inflazione (inflation-linked swaps) suggeriscono che la dinamica dei prezzi dovrebbe rimanere elevata nei prossimi mesi, intorno al 5 per cento a metà 2023, per poi scendere rapidamente e in modo persistente su livelli prossimi all’obiettivo della BCE del 2 per cento. Le aspettative basate sui sondaggi forniscono un quadro simile; ad esempio, secondo l’indagine della BCE presso gli analisti monetari condotta a fine agosto, l’inflazione dovrebbe attestarsi in media al 4,4 per cento nel 2023 e al 2,1 nel 2024.
Allo stesso tempo, la mediana delle attese d’inflazione rilevate con l’indagine della BCE presso le famiglie è pari al 5 per cento nei prossimi 12 mesi e al 3 per cento in un orizzonte di 3 anni. Quest’ultimo livello è maggiore di quello rilevabile dalle quotazioni di mercato e dalle indagini presso gli esperti, riflettendo, oltre a una maggiore rilevanza di elementi retrospettivi nel meccanismo di formazione delle aspettative delle famiglie, la più forte intensità della revisione al rialzo da parte delle famiglie meno abbienti. Per queste ultime, la quota delle componenti più volatili dell’inflazione nel paniere di consumo è particolarmente elevata, un fattore che le spingerebbe a rivedere le proprie aspettative con maggiore frequenza e vigore. Per il complesso delle famiglie la persistenza dell’aumento delle aspettative osservato finora potrebbe quindi risentire più che proporzionalmente di ciò che sta accadendo nei settori energetico e alimentare, con la conseguenza di una possibile più accentuata inversione una volta che le pressioni sul prezzo di questi beni si saranno attenuate.
Per quel che riguarda le retribuzioni, anche se in alcuni paesi sono state avanzate richieste di aumenti maggiori di quelli registrati negli ultimi anni, come ho ricordato la loro crescita nell’area dell’euro si mantiene (al netto delle componenti una tantum) intorno al 2 per cento. Le proiezioni compilate dalla BCE sulla base dei contratti in essere (wage tracker) segnalano inoltre un’accelerazione molto graduale delle retribuzioni nell’ultima parte del 2022 e nel 2023, sebbene alcune pressioni al rialzo possano sorgere nei paesi in cui i salari (in particolare quelli minimi) sono, a volte con clausole di indicizzazione automatica, più sensibili all’inflazione effettiva.
Queste valutazioni suggeriscono che, al momento, non vi sia evidenza di uno scostamento delle aspettative a medio termine dall’obiettivo di stabilità dei prezzi, né vi sono segnali di avvio di pericolose spirali tra prezzi e salari. L’alto livello dell’inflazione attesa nei prossimi trimestri, che riflette la normale inerzia nella crescita dei prezzi e il permanere delle quotazioni dell’energia su valori molto elevati, è infatti seguito da un rapido calo previsto per gli anni successivi, in linea con le proiezioni di BCE/Eurosistema e della maggior parte dei previsori. Se i prezzi dell’energia dovessero essere superiori a quanto attualmente atteso, attraverso la perdita di potere d’acquisto e il calo della ricchezza finanziaria in termini reali gli effetti negativi sulla domanda contribuirebbero probabilmente a frenare le aspettative d’inflazione e, a loro volta, le richieste salariali.
In ogni caso, occorre continuare a prestare molta attenzione non solo agli attuali livelli delle aspettative sui prezzi e sui salari, ma anche alle loro dinamiche prospettiche. Dato che un disancoraggio delle aspettative potrebbe avvenire in modo brusco e non lineare, la loro evoluzione va valutata sia in termini di convergenza verso l’obiettivo di stabilità dei prezzi sia in termini di loro sensibilità agli shock e tenendo conto della loro dispersione. Da questo punto di vista, l’evidenza è ancora sfocata. Da un lato, le aspettative a medio termine segnalate dalle quotazioni di mercato e dalle indagini continuano a mostrare una sensibilità relativamente bassa alle sorprese inflazionistiche. Dall’altro, in molte indagini campionarie la distribuzione delle attese tende a essere oggi sbilanciata verso un’inflazione elevata e una loro più ampia dispersione può segnalare un aumento dell’incertezza, suggerendo un rischio maggiore di un forte spostamento verso l’alto dell’intera distribuzione. Sebbene queste caratteristiche dell’inflazione attesa possano essere una mera conseguenza delle ripetute sorprese al rialzo dell’inflazione effettiva legate alla imprevista persistenza dello shock energetico, questi andamenti devono essere tenuti attentamente sotto osservazione. Il fatto che la “curva delle aspettative” sia inclinata verso il basso rassicura tuttavia sulla stabilità dell’ancoraggio, poiché le aspettative d’inflazione a medio‑lungo termine restano ben inferiori all’inflazione attuale.
Se la normalizzazione della politica monetaria dovrà proseguire con l’obiettivo di riassorbire gradualmente l’ampio accomodamento creato dal 2014, il Consiglio direttivo si trova ora di fronte a un difficile dilemma. L’aumento dell’inflazione è oggi accompagnato da un brusco deterioramento delle prospettive di crescita economica, che riflette la perdita di potere d’acquisto dei redditi. In questo contesto, rialzi dei tassi eccessivamente rapidi e pronunciati finirebbero per aumentare i rischi di una recessione. Qualora il deterioramento delle prospettive economiche si rivelasse peggiore del previsto, un eccessivo anticipo nella normalizzazione dei tassi ufficiali potrebbe risultare sproporzionato, minando la fiducia del pubblico nelle nostre azioni e rendendo paradossalmente più difficile il mantenimento della stabilità dei prezzi nel medio periodo. Si tratta di un rischio che merita di essere attentamente considerato insieme a quello di lasciare che l’inflazione resti eccessivamente alta per troppo tempo.
Un’ulteriore preoccupazione è legata ai rischi per la stabilità finanziaria. Nel contesto attuale, tali rischi sono amplificati dal rapido deterioramento del quadro macroeconomico, sia nell’area dell’euro sia nel resto del mondo, e dal fatto che tutte le principali banche centrali stanno alzando notevolmente i tassi ufficiali, con effetti negativi reciproci difficili da quantificare ma probabilmente niente affatto trascurabili. I rischi di instabilità finanziaria sono particolarmente rilevanti nell’Unione economica e monetaria, esposta per la sua architettura incompleta – in particolare la politica di bilancio decentralizzata e i ritardi nel completamento delle unioni bancaria e dei mercati dei capitali – a una possibile frammentazione dei mercati finanziari lungo i confini nazionali. Il concretizzarsi di tale rischio avrebbe ripercussioni pesanti in tutti i paesi dell’area dell’euro, portando a un inasprimento delle condizioni finanziarie ben superiore a quanto ritenuto opportuno per contenere l’elevata inflazione. Il Consiglio direttivo è pronto a ricorrere alla flessibilità nel suo programma di acquisto di titoli connesso con l’emergenza pandemica e al suo nuovo strumento di protezione della trasmissione (transmission protection instrument, TPI); eventuali tensioni sui mercati potrebbero tuttavia ostacolare il perseguimento della stabilità dei prezzi e danneggiare la crescita economica.
L’incertezza sulle prospettive economiche rende molto difficile predeterminare il possibile punto di arrivo dei tassi ufficiali. Una “scorciatoia” che viene spesso considerata si basa sul tasso di interesse cosiddetto “naturale”. Questo è, nella definizione di Knut Wicksell, il tasso di interesse reale al quale l’investimento uguaglia il risparmio e le risorse dell’economia sono pienamente impiegate; se i prezzi fossero completamente flessibili, a questo tasso di interesse l’inflazione sarebbe pari all’obiettivo della banca centrale.
Convegno CESIFIN/EUI Firenze, 30 settembre 2022